La strada sembrava finalmente in discesa. Per dare attuazione alla riforma del diritto fallimentare i cui criteri di delega sono contenuti nel provvedimento sulla competitivita, il Governo si era impegnato a procedere nel modo più rapido possibile, allo scopo di arrivare a esercitare la delega nel giro di un mese e mezzo. Senonché, è bastata una riunione del gruppo di lavoro misto, composto da esperti indicati dal ministero della Giustizia, da altri del ministero dell’Economia e da tecnici estemi, a riaccendere i timori che il varo del provvedimento torni in alto mare. Nonché quelli, ancor più consistenti, che alla fine le nuove norme in gestazione saranno ben poco efficaci rispetto a quelli che sono gli obiettivi sbandierati dal Governo. E cioè l’accelerazione delle procedure (che oggi hanno tempi biblici: nel Mezzogiorno si parla di 11 anni) e la conseguente possibilità di non distruggere del tutto o qnasi il valore degli asset dell’azienda in crisi (oggi in media quel che è possibile recuperare al termine di una procedura fallimentare è pari al 20% del valore iniziale). Chi ha partecipato alla riunione sostiene infatti che si è tornati alla babele dei linguaggi differenti: da un lato il linguaggio parlalo dal ministero dell’Economia, dove attualmente siede come sottosegretario Michele Vielti, il quale proviene dal ministero della Giustizia e ha seguito sin dall’inizio il dossier (è autore, tra l’altro, di quel famoso maxi-emendamento approvato in Consiglio dei ministri alla vigilia di Natale 2004, che avrebbe dovuto costituire il punto di riferimento per l’attuazione della delega). Dall’altro, il linguaggio parlato dal ministero della Giustizia, dove il responsabile del dicastero Roberto Castelli ha delegato il senatore Pasquale Giuliano a seguire la vicenda, che ha a sua volta ha incaricato alcuni tra gli esponenti di punta della vecchia commissione Trevisanato (quella che aveva lavorato a lungo alla riforma del diritto fallimentare senza che ciò desse luogo, però, a una decisione ministeriale). Si scontrano le differenti posizioni di Giustizia ed Economia. La differenza di punti di vista fra i tecnici dei diversi dicasteri, in particolare, riguarderebbe i poteri della pubblica autorità nella procedura fallimentare (per intenderci, il tribunale o il ministero nel caso dell’ amministrazione straordinaria). L’idea innovativa, rispetto al passato, contenuta nel vecchio maxi-emendamento presentato a Natale scorso e definita anche nei criteri di delega per la riforma del fallimentare, riguarda infatti la possibilità di affidare maggior potere discrezionale ai creditori garantendo loro maggior voce in capitolo tanto nel comitato dei creditori quanto rispetto al curatore fallimentare. Per contro, la filosofìa portata avanti dalla Giustizia è quella di chi punta a rafforzare i poteri dei curatori in quanto espressione della volontà e della responsabilità del tribunale. Il rischio concreto, insorrima, è che il conflitto fra due modi di considerare la questione riporti il provvedimento nei cieli della teoria e allontani di molto la possibilità di varare una delle poche, se non la sola, riforma concreta di quest’ultimo scorcio di legislatura. Con buona pace di quanti avevano sperato che anche l’Italia potesse disporre del suo “chapler 11” (negli Stati Uniti chi ha fallito, se non ha commesso frode, ha la possibilità di riprendere la propria attività protetto da una norma ad hoc) o che fosse messa in condizione di competere con Paesi come la Spagna, la Germania o la Francia che alla riforma del diritto fallimentare hanno provveduto da tempo.